“Il buon giornalismo? Prendere un giorno e dargli senso”

I giorni scorsi in occasione del sessantesimo anniversario dell’Ucsi, l’Unione italiana che raggruppa i giornalisti cattolici, abbiamo incontrato a Cagliari Marco Tarquinio, direttore del quotidiano Avvenire, che per l’occasione, nella Pontificia facoltà teologica della Sardegna, ha tenuto una relazione incentrata sulle questioni importanti e delicate che in questo travagliato avvio di terzo millennio caratterizzano più che mai il dibattito culturale sviluppatosi attorno alle trasformazioni del sistema dell’informazione. Cambiamenti epocali che costringono il giornalista a rivedere il modo di fare il mestiere, tenendo conto dell’avvento delle nuove tecnologie che se da una parte hanno semplificato il lavoro, dall’altra lo hanno complicato notevolmente e anche, per certi versi, ne hanno svilito il suo ruolo primario. Oggi si discute tanto dell’esigenza di un giornalismo capace di distinguere il bene dal male e la riflessione matura in un contesto particolare in cui l’applicazione del digitale impone delle scelte, ma impone anche, al giornalista, di lavorare sulla professionalità per far comprendere a tutti, specie ai giovani, la differenza delle notizie vere da quelle false. Insomma, se il giornalista, in generale, è chiamato a garantire professionalità, al giornalista cattolico si chiede, in modo particolare, di affiancare alla tecnica categorie come etica e morale, non soltanto innalzando il livello del senso critico e verificando sempre e comunque la notizia attraverso l’incrocio delle fonti, ma soprattutto lavorando con coscienza, avendo sempre a cuore il rispetto dei principi sanciti dalla Costituzione e la crescita dell’individuo. Una realtà in continua evoluzione in cui anche i giornali diocesani devono dimostrare la capacità di reinventare il modo di fare informazione sfruttando le straordinarie opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico e dalla necessità ormai impellente di essere presenti contemporaneamente su diverse piattaforme, per raggiungere un bacino d’utenza più vasto e non meno esigente, ma anche, anzi soprattutto, per opporre a un’informazione «mordi e fuggi», spesso parziale, imprecisa e fuorviante – quando non palesemente falsa – quella autentica, verificata, utile e controllata in ogni fase del processo.

Direttore, mentre il giornalismo online è in grado di operare questa distinzione tra buona e cattiva informazione, sui social questo non avviene, perché?
«Noi già ci lamentavamo del giornalismo online rispetto a quello più ponderato della carta stampata perché, si diceva: si va troppo veloce, si rischia di saltare la fase delle verifiche, questo è un rischio che permane anche se noi informatori professionali abbiamo cercato di affrontarlo e superarlo, i social aggiungono un altro elemento, si rimasticano le notizie che arrivano da altre fonti senza verificarle e si propagano, si prende quello che arriva dall’informazione tradizionale e lo si trasforma a volte nel suo contrario. È una grande sfida, per noi cronisti significa affrontare le cose con ancora più serietà e più coscienza, altrimenti non si capisce cosa ci stiamo a fare».

Eppure nei social ci sono molti lettori, un bacino d’utenza variegato, terreno fertile che permette di incontrare una fascia di lettori che sul cartaceo è difficile intercettare.
«Ho una strana sensazione, non voglio sembrare prevenuto perché non lo sono, riconosco ai social una grande utilità, ci aiutano a vedere e cogliere situazioni e sentimenti che altrimenti rischieremmo di non cogliere, a livello globale ci consentono di parlare con realtà in cui l’informazione tradizionale non riuscirebbe a entrare né riuscirebbe a mostrare, penso ai paesi più chiusi, alle situazioni di censura, ai drammi civili che si vivono in alcuni paesi. Tornando a noi, oggi, a volte ho la sensazione che quando si va per social e per il dibattito che si crea su determinati articoli e argomenti è come se ci fossero delle armate in agguato che si scatenano in maniera molto radicale da una parte e dall’altra a prescindere da quello di cui si parla, mi impressiona sempre vedere che dai commenti che accompagnano certi post, si parte da un argomento e si arriva da un’altra parte, in una deriva che pare inesorabile, ed è veemente il più delle volte, e la veemenza a volte è utile a volte fa perdere lucidità e senno».

Certo, non demonizziamo i social, perché sono strumenti straordinari, però è ovvio che il giornalista deve sapersi difendere, deve opporre un giornalismo di qualità: come, in che modo, con quale antidoto?
«Sarò anche semplicista in questo senso, ma credo che abbiamo un solo modo, quello di fare un mestiere secondo le regole, non c’è notizia, per quanto clamorosa, che non meriti di essere verificata con tutto il tempo che serve per farlo, ai miei colleghi dico sempre, rubando lo slogan a una vecchia pubblicità, che “la potenza senza controllo è nulla”, dove, in termini giornalistici la potenza è la verifica, l’incrocio delle fonti, il non fermarsi mai alla prima fonte, incrociarne diverse, verificare i fatti fino in fondo, questo è il servizio che possiamo dare, altrimenti anche noi, invece che mettere in circolazione acqua potabile e un’informazione che aiuti davvero, continuiamo a far circolare acqua fangosa, a volte velenosa».

Nessuno ha la sfera di cristallo né si può prevede ciò che sarà, però è ovvio che il vecchio sistema dell’informazione regge sempre meno all’impatto con le nuove tecnologie, quale sarà il futuro, cosa ci dobbiamo aspettare?
«Credo che il cambiamento sia accelerato, è evidente che la dimensione digitale sta prendendo largamente il sopravvento, rimarrà una parte di informazione depositata su uno strumento che possiamo tenere in mano, la carta, se posso dire quale è il mio sogno, ma questo ce lo dicono anche linee di tendenza, e dagli Stati Uniti arrivano segnali di ripresa del mercato dei giornali di carta. Ma a me interessa relativamente il supporto attraverso il quale i giornali verranno diffusi, credo che domani, magari, potremo sfogliare il giornale nell’aria vedendo un ologramma senza avere un supporto cartaceo in mano, l’importante è che si salvi lo strumento giornale che è prendere un giorno della vita del mondo e dargli senso, metterlo in mano a chi si fida di te, aiutare a capirlo con le sue armonie e disarmonie, i drammi, le bellezze, le cose grandi e miserrime che contiene, dare delle chiavi di lettura, una gerarchia delle notizie, costruire un sistema di lettura della realtà a disposizione di chi si fida di te ed è in dialogo con te, se perdessimo questo saremmo più poveri, avremmo soltanto un palinsesto dal quale scegliamo le notizie, spesso solo quelle che ci somigliano, i motori di ricerca, quelli che ci profilano, già fanno questo lavoro, io la chiamo un’informazione selfie, dove sopra i fatti c’è la faccia di chi la riceve e questa non fa crescere, non fa crescere in consapevolezza, non fa crescere in profondità di sguardo, non fa bene, spero che non sia questo il destino e credo che a ognuno di noi spetti di lottare perché così non vada».

In questo contesto, che ruolo possono giocare i settimanali diocesani?
«I settimanali diocesani sono testimoni di tante lotte di resistenza, dico sempre che nel nostro paese hanno saputo essere presidi di civiltà e di identità dei territori nel momento in cui la notte si faceva scura, penso ad esempio al Ventennio, credo anche che oggi debbano reinventare il loro ruolo perché sono al servizio delle Chiese locali e delle comunità locali e devono saperlo fare facendo informazione di qualità, giocando con i diversi registri e i diversi canali che sono a disposizione, un po’ quello che state facendo con Libertà, è molto importante questo, perché se perdessimo queste voci, perderemmo degli strumenti di servizio delle nostre comunità locali in un momento in cui troppi stanno abbandonando e sarebbe una ferita grave e quindi io faccio tutti gli auguri, Avvenire è un giornale a sostegno di questa realtà in tanti modi, ne ho parlato anche di recente al convegno della Fisc, ci sono almeno tre modalità con cui questo si può sviluppare, l’importante è che queste voci non si spengano, gli occhi rimangano aperti e il servizio continui a essere reso».

Per chiudere, a proposito di Avvenire, cosa significa in questo momento importante essere chiamati a dirigere un giornale come Avvenire?
«Me lo dico da dieci anni di questa mia direzione cosa significa, significa fare un giornale che davvero voglia servire tutta la comunità nazionale italiana portandone la responsabilità, io ho voluto che l’ispirazione del giornale tornasse subito sotto la testata con la scritta “quotidiano di ispirazione cattolica”, perché non è un limite sapere chi si è, ma la condizione del dialogo anche con quelli che sono diversi da noi, che la pensano diversamente, credono anche diversamente, è molto importante perché abbiamo molte parole da dire e abbiamo orecchi buoni per ascoltare tutti e questa credo che debba essere la virtù dei giornalisti, di tutti, ma soprattutto di quelli che vogliono farlo da cristiani».

 

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